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Chronos Zero: “Hollowlands” – Recensione

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E’ il prog dei breakdown, delle continue virate, delle inversioni ad U in autostrada e di tutto ciò ai limiti del lecito: anche sfornare un secondo album dalla durata importante, correndo il rischio di mettersi in una posizione scomoda rispetto al mercato che, in questo particolare momento storico sta già facendo i conti con i pezzoni del symphonic nazionale e la digestione di “The Astonishing” dei Dream Theater.
Ma evidentemente ai Chronos Zero piace rischiare ed andare avanti per la propria strada, anche perchè c’è una saga da finire.
Ecco “Hollowlands” ovvero il capitolo numero 2 della storia iniziata con “A Prelude Into Emptiness” nel 2013, intervallata dalle suite (“Overture” e “Amanomurakumo”).

Così come l’intero progetto discografico, “Hollowlands” è un album impegnativo, per nulla scontato e nemmeno di facile assimilazione. Ciò che è certo è che alla fine dei suoi 66,92 minuti viene naturale plaudere a cotanta lungimiranza.
Il progressive è come l’acqua: prende la forma del recipiente in cui la versi. Nel caso dei Chonoz Zero diventa strumento in mano a perfezionisti per esprimere un concetto più aulico della musica, che esuli dal semplice compitino scrivere-cantare-suonare. Qui la composizione è tutto. Composizione di testi, spartiti ed idee.
Qui il lavoro di Enrico Zavatta è premiato da questa visione non convenzionale del prog e della musica in generale, in modo tale che possa realizzarsi esattamente quel continuo mutamento di forme – come l’acqua – a seconda del mood che ha guidato la mente e la mano nella composizione.

La scelta del growl e della voce femminile sporca (Margherita Leardini una spanna sopra tutti) conferiscono al lavoro quella dose di autenticità che rischiava di perdersi nei meandri della perfezione stilistica.
L’apporto di Matt Marinelli (Borealis) e Jan Manenti (Love.Might.Kill.) è essenziale per dare al disco una sorta di appiglio terreno, proprio per non giocare sempre e comunque sul surreale e le atmosfere fantastiche. Purezza alla Satie in “On The Tears Path”, memorie etniche in “Who I Am”, tradizione assoluta in “Fracture”, o “Ruins Of The Memories Of Fear” o nella conclusiva (e strumentale) “From Chaos To Chaos”: le tante anime che compongono “Hollowlands” provano a narrare un storia; provano a convincere l’ascoltatore a suon di arrangiamenti pindarici per chi ha ancora voglia di sorprendersi.
Ripeto: “Hollowlands” dei Chronos Zero non è per tutti. E’ esigente. Così come colui che potrà apprezzarne l’essenza.