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DGM: “The Passage” – Recensione

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Sarebbe stato troppo banale intitolare l’album “The Secret”. Eppure l’essenza di “The Passage” il nuovo album dei DGM pare risieda proprio nelle due tracce d’apertura, divise in prima e seconda parte, “The Secret pt. 1 e pt.2”, per l’appunto.
Sarebbe stato banale ed i DGM non lo sono. La band capitolina è ormai entrata nel novero di quei gioielli prog che la musica italiana è in grado di offrire. E prima di dire che in Italia non siamo buoni, che all’estero sono meglio di noi, che tutto ruota ad un sistema sbagliato, è il caso di dare un’ascoltata a questo piccolo capolavoro. Qui le cose funzionano benissimo e per quanto possa sembrare scontato, perchè parliamo di una grande band, bisogna tenere a mente il perchè i DGM oggi sono quello che sono: la loro storia, la loro preparazione, la loro dedizione alla musica. Tutto questo viene premiato dai risultati, anche se a lungo termine. Che sia la band un esempio per tutti.
E che sia “The Passage” la colonna sonora di questo autunno. Per noi già lo è.
Lo ascolti una volta e poi diventa impossibile premere su “stop”. Un loop automatico per la sua linearità. Sembra essere stato composto tutto d’un fiato.

Parlavamo di “The Secret”: un incipit che di “The Passage” è esso stesso il suo culmine, con la potenza della part one che segue, senza indugio alcuno, nella seconda andando a scemare in una sorta di arabesque a cui fa da contraltare la spigolosità dei suoni, tra tutti la chitarra di Mularoni.
Ogni elemento della band offre il suo contributo in termine di rudezza, a partire dai testi. “Animal” è la bestia da sfamare, colei che non si ciba di parole, ma di energia e “Ghost Of Insanity” diventa la sfida personale di Mark Basile perchè il duetto con Tom Englund è come se lo galvanizzasse ed i colori della voce cacciano le unghie.
Cosa che accade anche in brani come “Daydreamer” al quale la band ha regalato forse il migliore dei refrain.

La ricerca dell’arma più subdola per toccare le corde più intime dell’animo si concretizza in “Disguise”, un pezzo che è davvero “un pezzo”, nel senso che ha un enorme difetto: dura troppo poco. E’ la magia di piano e voce che si fondono, è la canzone che vorresti che ti cantassero in riva al mare di notte mentre lo sguardo si perde nell’orizzonte. La ballad completa c’è: è “In Sorrow” ed è la traccia che chiude il disco: è dolce ma ben scandita, il ritmo lento inganna perchè gli sprazzi aggressivi non la lasciano relegata nell’alveo della semplice canzone “romantica”. Questo, tra l’altro, è un brano leggermente diverso a mio avviso rispetto agli altri. C’è una componente filoamericana che la rende quasi pop/rock e probabilmente è quella che le radio a stelle e strisce passerebbero subito senza esitazione.
Il resto ce lo teniamo noi. Ed anche ben stretto.