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Hot Sunday Blood: “Someone Left Behind” – Recensione

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Someone Left Behind

E’ una discesa negli inferi, un viaggio di andata per il quale paghi volentieri il biglietto.
Someone Left Behind” è l’album con il quale si presentano gli Hot Sunday Blood, alternative rock band di Torino, sulla scena dal 2013. Un gruppo fresco fresco, insomma. Eppure questo lavoro presenta una forte maturità stilistica dovuta senz’altro alla capacità del combo di attingere al meglio dalle singole influenze.
La voce di Andrea Amerini ricorda molto quella di Corey Taylor: un concentrato di sensualità mista a rudezza che dona ad ogni singolo pezzo un coinvolgimento spontaneo.

L’album si apre con “Cosmic Doom Machine” e la chitarra introduttiva di Marco Piozzi richiama le atmosfere cupe ed allo stesso tempo irrinunciabili di Mike Mushok (Staind): è qui che comincia il viaggio all’inferno, perchè mentre sei seduto ed ascolti il disco ti accorgi che vuoi rimanere incollato alla sedia, completamente assuefatto dalle fiamme dello stoner. Che importa se ti bruci… Quel groove velato sembra essere la panacea di tutti i tuoi mali.
Spunti interessanti pervadono l’intera release, con sorprese piazzate nel mezzo dell’ascolto. Vengono sistemate vicine, ad esempio, tracks come “I Deserve To See” e “Running On My Own”: scelgo questi due pezzi non a caso per mettere in risalto una cosa, ovvero la capacità degli HSB di dare una piena rispondenza al pezzo con la scelta del titolo. La prima è una calma rivendicazione, un manifestare i propri intenti affidandosi al rock melodico fatto di schitarrate dolci che poi incalzano, per diventare nuovamente miti. In “Running On My Own” hai proprio l’impressione di correre, di compiere una fuga in solitaria accompagnato dai beat del drummer Manuele Miceli, vero e proprio personal trainer per l’occasione.
Altra scelta intelligente è quella di aver affidato a “Someone Left Behind” il compito di fare da titletrack, il che presume sempre che il pezzo in questione abbia qualcosa di speciale. La traccia è orecchiabile, ma soprattutto è corale, nel senso che ogni elemento del gruppo ha il suo spazio ed ogni apporto è ben distinguibile: è giusto quindi menzionare anche la chitarra di Andrea Libero (che mette la firma pure sulle backing vocals) ed il basso di Annalisa Bove (alè! Una donna in un gran bel gruppo!).
L’unica critica che mi sento di muovere riguarda la ripetitività degli ultimi brani: li ascolti in sequenza ed hai l’impressione che dove finisce uno, comincia l’altro. Probabilmente se ci fosse stata più varietà ci saremmo trovati dinanzi ad un capolavoro, ma la strada intrapresa sembra essere quella giusta.
Le speranze che qualcosa in futuro possa davvero sorprendere sono racchiuse nell’ultima traccia, “Satellite”: è una super ballad, una nenia rock che ti culla piano e ti fa capire che poi, in fondo in fondo, quell’inferno nel quale sei sceso ha uno spiraglio di luce. Ma quel viaggio lo rifarei ancora… perchè mi è piaciuto!