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Ivory Times: “Suicide World” – Recensione

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E’ un secondo appuntamento con il mercato discografico che lascia lo stomaco appesantito. Un aperitivo fatto con troppe noccioline e poca roba da bere. Insomma, incompleto.
Gli Ivory Times, hard rock band di Casale Monferrato, ci riprovano ma i risultati stentano ad arrivare. Manca qualcosa. Non ci si può e non ci si deve accontentare del fatto che si sappia fare un buon lavoro con gli strumenti se poi l’amalgama resta grumoso.
Metafore culinarie per spiegare, secondo il mio punto di vista, “Suicide World“.

La band propone un rock melodico tradizionale che in tutte le tracce si sposa con le atmosfere ricercate, quasi a voler dare all’ascoltatore una sorta di pace interiore. La base è buona, il punto di partenza è accettabile, ma non è nulla di particolarmente innovativo che permetta di poter rendere solido il progetto.
A mio avviso, il problema sta nell’ordinarietà del lavoro: la fase di composizione è metodica, troppo ragionata. Il sound resta confinato nei suoi meandri senza regalare sprazzi di divertimento.
E’ come se la band si fosse fermata alla fase di riffing, senza approfondire e dare anima alla sua creatura.
Delle undici tracce che compongono l’album mi sento di segnalare la track omonima: l’intro di “Ivory Times” dovrebbe essere lo spunto dal quale far esplodere la carica della band che ad oggi sembra sopita. Peccato che poi, anche in questa traccia manchi quella carica energica e continuativa che invogli a saperne di più e ad ascoltare ancora. Esattamente come accade per la titletrack che apre l’album: il riff iniziale fa ben predisporre l’ascoltatore ed infatti “Suicide World” è un bel pezzo. Qui la voce de Il Cinque ricorda per certi versi quella di Aaron Lewis (Staind) e forse è proprio qui che potrebbe essere svelato l’arcano per il futuro: collegare voce, sound e stile. Dico questo perchè la scelta di inserire nel disco la cover di “Madness” dei Muse non è che sia stata propriamente brillante. Sappiamo che una cover funziona in due casi: o quando è riprodotta fedelmente (ma qui poi si viene criticati per mancanza di personalità), o quando viene stravolta in base all’essenza della band che la propone. Ecco… “Madness” degli Ivory Times non rientra in questi due casi ed il risultato purtroppo non convince. E’ un pezzo – così come l’intera discografia dei Muse – che si regge sull’estensione e sui colori della voce di Bellamy. In questo caso invece è appiattita e non funziona.
Meglio i pezzi propri, dove almeno c’è la possibilità di modellare la musica a seconda delle proprie caratteristiche, ma soprattutto dopo aver raggiunto la consapevolezza dei propri limiti e dei propri punti di forza. Per esempio, cantare in lingua madre.