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Filii Eliae: “Qvi nobis maledictvm velit”

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filii eliae artwork

Meritano ben più di un accenno biografico i salernitani Filii Eliae, poiché rappresentano, forse a loro insaputa, un pezzetto di storia musicale underground italiana. Nascono nel lontano 1985, sfoggiando niente meno che il nome Mayhem (!) e proprio con questo nome registrano la loro prima demo “Hate and Pain”, per poi cambiare di nuovo nome in Enslaved e registrare il debut album. Dopodiché, il silenzio… Da allora sono passati alcuni decenni, ma rinascono ancora una volta, in questo nuovo millennio, con la benedizione della Lux Perpetua Records ed un nuovo moniker, pronti a presentarci un lavoro dal titolo impegnativo: “Qvi Nobis Maledictvm Velit”.

Ascoltando quest’album, sembra davvero di fare un salto indietro nel tempo ed inevitabilmente, riaffiorano alla memoria le sonorità disperate dei primi Celtic Frost e Death SS, in cui al tappeto di synth e doppio pedale, si uniscono riffs dal sapore doom d’avanguardia, un sound oscuro, soffocante e perfidamente retrò, condito, in maniera geniale, da testi scritti totalmente in latino. Fin dalla prima nota, sento che l’atmosfera mortifera si impossessa di me, quindi mi tolgo il cilindro e salgo sul carro trainato da sei cavalli neri. Il sentiero mi conduce all’interno di un cimitero monumentale (la copertina raffigura in pieno l’immaginario in cui ci si muove). Tra marmi bianchi e fiaccole perpetue, posso scorgere una lapide sulla quale sono riportati tre nomi: Martirivm (Chitarra, synth e voce); Ossibvs Ignotis (batteria) e Vastvm Silentivm (basso); Filii Eliae.

Il viaggio cimiteriale ha inizio. Le campane suonano a morte, offrendo lo spunto per le note dell’atmosferica “Mortem Mecvm Veniet”, brano in cui si avverte, nel giro di basso, anche una sottile matrice “maideniana”. Le frasi in latino scorrono rauche e cadenzate e la morte si avvicina, brandendo la sua falce, tanto che le chitarre diventano tristemente disperate e l’assolo, presente nella parte centrale del brano, sembra un’ implorazione che prosegue e sorregge anche il ritornello, il quale pare anch’esso una supplica. Molto meno atmosferica e più lineare, quasi di scuola nord europea, anni ’90, è la seconda traccia “Et Vmbra Svm”. In questo brano le chitarre sono sì lente, ma ben più cattive, mentre il cantato diventa quasi disprezzo. Non possiamo che tremare e godere all’ascolto dell’intro di organo col quale ha inizio “Vita Finis Adest”, giusto avvio per un pezzo che d’improvviso fugge via veloce, perfido e tagliente, lasciandoci fermi, imbambolati, sulla panca di marmo, ove ci siamo adagiati, ancor memori del suono d’organo funereo. Con “Ex Pvtredine”, torniamo ad assistere a sonorità molto doom old school, in cui il doppio pedale è pressocchè sempre presente ed i riffs, dal retrogusto black metal della prima ora, non lasciano scampo, fino a spingere anche le ritmiche all’ossessività permanente. Sembra, in questo frangente, di poter rivivere la descrizione biblica dell’inferno, una condizione di dannazione eterna in cui sarà “pianto e stridor di denti” (sic). Passando attraverso l’ottima traccia strumentale “Volgvs Sine Nomine”, ci imbattiamo nella malinconica “Nvsqvam Avt Nvllvm Fore”, brano dalle ritmiche lente e pesanti, che d’imprvviso vedono irrompere un doppio pedale veloce, al quale segue un bell’assolo, anche in questo caso dal sapore “maideniano”.

Giunti quasi al termine del viaggio, tra marmi bianchi e flebili fiammelle, non possiamo che soffermarci al cospetto di uno spettacolo sovrannaturale, grazie al sottofondo opprimente di “Nox Sicvt Dies”, giusta anticamera, prima dell’uscita dal tunnel stretto e buio, all’interno del quale pare quasi di avvertire l’odore della muffa, della carne mista alla terra bagnata… La liberazione, che però non è un vero sospiro di sollievo, viene rappresentato da “Qvi Nobis Maledictvm Velit”, track di chiusura che dà il titolo all’intero lavoro e che si struttura tra ossessive frasi urlate, su un velenoso tappeto di doppio pedale e distorsioni marce, anzi putrefatte. Poi, è la fine…

“Qvi Nobis Maledictvm Velit” ha il sapore di un’opera postuma che ha impiegato decenni a vedere la luce. Non sarei sorpreso se i fratelli Figliolia, confessassero di aver lasciato questo materiale chiuso in un cassetto fino ad oggi. Sono molteplici le sensazioni trasmesse da questo disco; si resta colpiti da alcune sonorità quasi dimenticate, o avvolti da una sensazione di malinconica paura, a cavallo tra il ricordo di un passato, rappresentato appunto dalle sonorità ed il mistero della fine e dell’eternità, scorte tra le tematiche affrontate. Oltre alle strutture compositive, sono proprio le sonorità di altri tempi ed una buona produzione, che ben si confà al genere, a dare un marchio all’opera, un’impronta che rende possibile caratterizzare la band e renderla, oggi, così rara. Sarebbe un peccato morire senza averlo ascoltato.