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Pulvis Et Umbra:”Implosion Of Pain” – Recensione

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“Implosion Of Pain” è un album che ha delle potenzialità, lo si evince dalla miriade di idee messe in campo da Damy Mojitodka, dal momento che i Pulvis Et Umbra dal 2013 sono una one man band.

Purtroppo non è semplice sviluppare al meglio tutti gli strumenti se a suonarli è un’unica persona, Damy si è impegnato al meglio per ottenere un buon risultato, ma ci sono alcune carenze. Innanzitutto il taglio sonoro dell’album è abbastanza freddo, soprattutto per quello che riguarda la batteria (drum machine) che non gode di quella dinamicità possibile al braccio umano. Per quanto riguarda gli altri strumenti, sicuramente è da rimarcare il lavoro svolto alla chitarra, dal momento che sin da “Lost Moon” il riffing è tagliente e accattivante.

Il genere proposto è un Thrash/Death a tratti melodico, che alterna in dosi equilibrate parti veloci e serrate ad altre più cadenzate e dall’incedere pachidermico. Con “End Of Emptiness” continuano le sferzate Thrash, condite da elementi riflessivi ed atmosferici creati da arpeggi distorti di chitarra. A questo punto inizia ad emergere anche un altro limite, ovvero le parti vocali che non sono dotate di grandi variazioni e risultano alquanto monocorde. Con la titletrack “Implosion Of Pain” la mancanza di un batterista vero e proprio si fa ancora più evidente, dal momento che le parti di chitarra sono di buona fattura, ma vengono poi smorzate da un drumming vuoto e macchinoso. Nel calderone di influenze riscontrate nell’album troviamo anche blast beats di estrazione Black Metal, che di per sé sono di buona fattura, ma non trovano un contesto adeguato se facciamo riferimento a quanto ascoltato fino a questo momento. Punta tutto sull’atmosfera “Psicostasia”, il cui incipit fa leva su frasi recitate con tono oscuro e minaccioso, il brano per tutta la sua durata predilige riff monolitici e sonorità quasi mediorientali. Anche in questo caso la struttura musicale è interessante, ma non è adeguatamente contestualizzata nella visione generale del full length.

Con “Soul Vertigo” Damy torna a pestare sull’acceleratore, dimostrando di essere in grado di dar vita a passaggi interessanti ed intensi, regalandoci anche riff articolati, mentre “Ordinary Scary” torna a giocare con le atmosfere, adagiandosi su ritmiche meno indiavolate, che si ripetono anche nella seguente “Lullabye”, brano dall’incedere epico e maestoso. Qui non convince il double kick della batteria, che suona decisamente artificiale. Chiude il lotto di brani “Look Through The Eyes”, più ispirato e di grande impatto.

Rispetto al predecessore “Reaching The End” devo dire che Damy, anche se da solo, ha compiuto grandi passi in avanti, ma personalmente credo che sia necessario l’apporto di altri musicisti per poter sviluppare al meglio le idee.