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Frammenti: “Merce” e la rivolta del sentire

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Sono passati anni dall’ultima volta che abbiamo sentito la voce dei Frammenti, ma chi li ha vissuti – o anche solo incrociati – sa che non si erano mai davvero zittiti. Le loro canzoni, il loro percorso, la loro attitudine hanno continuato a circolare sottotraccia, come quei semi che germogliano nel tempo giusto, quando tutto il resto sembra appassire. Oggi tornano con “Merce”, un album che è più di un disco: è un manifesto, un grido, una carezza. Abbiamo parlato con loro di cosa significa fare musica oggi, dell’urgenza di dire qualcosa che resti, del rapporto con le radici, del coraggio di essere vulnerabili. E del bisogno, sempre più raro, di non voltarsi dall’altra parte.

ASCOLTA L’ALBUM: https://youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_lDE2MR7rc3K_uCad3l-38idZX275E8z-w&si=Z63k9LjPtq_RwMsn

“Merce” è un album che non si limita a osservare, ma prende posizione. Cosa vi ha spinti oggi, dopo anni di silenzio discografico, a tornare con un lavoro così crudo e lucido?

(Luca Saini)
A spingerci è stata una pressione accumulata a strati. Gli anni di silenzio non sono stati inattività, ma di ascolto e osservazione del rumore di fondo, delle fratture sociali, dei nostri stessi cambiamenti. Più “registravamo” questi processi, più diventava chiaro che il momento di restituirli sarebbe arrivato. Spesso occorre uno stop o un punto di vista distaccato per avere un’idea più lucida su cosa siamo e cosa vogliamo veramente. “Merce” nasce da questa urgenza personale, ma si rivolge inevitabilmente ad una comunità.

Avete attraversato decenni di musica underground, ma anche trasformazioni sociali profonde. In che modo è cambiato il modo di scrivere, suonare e portare in giro musica “che dice qualcosa” in Italia, rispetto ai vostri inizi negli anni ’90?

Non è cambiato pressoché nulla, siamo sempre stati fuori contesto, lo eravamo allora, lo siamo ancora oggi. Scrivere e suonare per me continua ad essere un atto doloroso, comporta la fatica della cura, del mettersi a nudo in un contesto dove tutti sembrano “comodi” nel loro ruolo.

Nel disco si sente forte il peso della memoria, ma anche il bisogno di rompere con l’eredità tossica del presente. Quanto contano, per voi, le radici e quanto la capacità di disimparare?

In questo disco ci sono diverse fotografie, alcune del passato altre del presente, altre ancora da un ipotetico futuro. Realtà oleografiche che si fondono insieme, dove tutto è possibile dove tutto è ancora da decidere.

In “Merce” si passa dalla fragilità alla rabbia, dalla poesia al punk diretto: come convivono dentro di voi queste anime? E quanto è stato importante, per costruire questa identità sonora e testuale, il confronto con le scene e i movimenti antagonisti?

In tutti noi convivono differenti personalità, si è trattato di dare voce alle luci e alle ombre, ma anche i colori – dai più accesi a quelli più cupi. Scene e movimenti – specie quelli attuali, non hanno giocato nessun ruolo nella stesura di questo lavoro, piuttosto parlerei di “scenari” intesi proprio come gli elementi scenografici di una società – globale, che si sta rilevando in tutto il suo orrore distopico.

Alcuni brani sembrano delle vere e proprie lettere non spedite – a sé stessi, alla propria generazione, forse anche a chi non c’è più. Quanto c’è di autobiografico in questo disco, e quanto invece è uno specchio delle vite degli altri?

L’autobiografia di fatto è sempre un racconto collettivo, siamo uno il riverbero dell’altro, nel bene e nel male. La lettera di cui parli, è questo disco, che attraverso la sua stampa e distribuzione non rimarrà in un cassetto. A prescindere da chi vorrà leggerla, di per sé questo dato, per me è già un successo personale.

Negli anni ‘90 eravate una voce radicale in un panorama underground vibrante e politico. Oggi che molte battaglie sembrano anestetizzate o fagocitate dal marketing, che spazio c’è ancora – secondo voi – per una musica realmente scomoda?

Il “grande nulla” avanza (come quello della Storia Infinità) recupera, ingloba ogni linguaggio, fagocita tutto, adula, castiga o premia, Sicuramente occorre essere lucidi e sviluppare un forte spirito di discernimento. Io credo, forse ingenuamente che ci sarà sempre spazio per un’intelligenza emotiva fuori dal coro. “Out of step whit the world”

Il brano strumentale che chiude l’album è un omaggio a chi ha illuminato il vostro cammino. Vi va di raccontarci chi sono, oggi, le persone, le idee o le esperienze che continuano a darvi luce?

“Chi illumina la grande notte” è il nostro dire grazie a chi ci ha messo al mondo e nello specifico la figura del padre e a tutti i padri dei padri, nostri antenati. È uno strumentale perché le parole, in quel confine fra vita e morte, pesano troppo. Sapere da dove veniamo – il nostro sangue, le voci, le mani che ci hanno indicato la strada — ci dà lo slancio per osare cose nuove, in musica e nella vita. Un dialogo con il Grande Mistero. Senza quel fuoco alle spalle la nostra musica sarebbe solo un freddo accessorio; con questa consapevolezza invece, diventa un ponte e un modo di restituire luce a chi l’ha accesa prima di noi.